Teleriscaldamento: quando a bruciare è la salute
Termovalorizzatori per grandi utenze non troppo distanti e con fabbisogni omogenei e prevedibili. Pompe di calore e caldaie a condensazione per tutte le altre utenze troppo distanti o poco redditizie.
Abbiamo già accennato, in un precedente articolo, come anche gli esperti dell'AICARR, in un articolo apparso sul numero di marzo 2011 di AICARR Journal, abbiano manifestato ampie perplessità riguardo l’effettiva efficacia dei sistemi di teleriscaldamento dal punto di vista sia energetico che ambientale.
Sappiamo infatti che la valutazione dell’efficienza energetica del punto di emissione non è attualmente disciplinata da alcun quadro normativo, proprio perché la fonte energetica alimenta una rete di teleriscaldamento. Lo stesso DL 28/2011, che per tanti versi ha introdotto una vera rivoluzione nel settore dello sfruttamento delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica, è ancora completamente carente sotto questo aspetto.
Vi sembra possibile infatti che debba essere non solo tollerato, ma pure incentivato, e magari equiparato a sistemi che sfruttano energia rinnovabile, un sistema alimentato con RSU (rifiuti solidi urbani)?
Ho scelto deliberatamente di non fare l’esempio della legna, sul quale comunque rimangono tutta una serie di riserve dovute al basso potere calorifico (e quindi grosse quantità di combustibile a parità di energia resa) e sull'elevatissima quantità di ceneri che la combustione genera, che in qualche modo vanno allontanate dall'impianto e poi smaltite (per finire magari in qualche bella discarica).
Ma la legna dopotutto è biomassa, quindi in qualche modo “rinnovabile”. Che poi ci possano essere utilizzi migliori rispetto all'utilizzo come combustibile, per via di quanto già detto sopra, è un altro discorso.
Ho scelto l’impianto alimentato con RSU (altrimenti detto termovalorizzatore, perché chiamarlo inceneritore, come veniva detto una volta, permette di ricordare che il processo produce, oltre all'energia, tante belle ceneri non proprio salutari, che da qualche parte vanno smaltite, e a caro prezzo) perché la moda più recente vuole che sia questo il combustibile più in voga. In aggiunta a questo, parecchie città si stanno dotando (o sono già dotate) di una rete di teleriscaldamento alimentata con questo combustibile, spacciato da molti come “ecologico” (permette di evitare le discariche, che danno un’immagine così brutta, e fa miracolosamente sparire i rifiuti... nell'aria, è proprio il caso di dirlo!).
Ho letto di recente una bella inchiesta, dalla quale mi sono permesso di prendere spunto per alcune riflessioni a questo riguardo.
Tutti noi certamente sappiamo che una parte di quello che viene bruciato potrebbe essere sicuramente riciclato con vantaggi energetici ed ambientali decisamente superiori (pensiamo alla carta, giusto per fare un esempio), altri materiali, oltre a essere riciclabili, sono di ostacolo al processo di combustione (il vetro e i materiali ferrosi, ad esempio), e altri ancora, sempre riciclabili, sono ottimi per la combustione ma pessimi per la salute (la plastica, ad esempio).
Tutto questo ci dovrebbe portare a considerare con molta più attenzione quali sono in effetti i vettori energetici che alimentano i nostri termovalorizzatori, perché tutto ciò che esce (dalle ciminiere, per fluire poi nei nostri polmoni), dipende in modo sostanziale da ciò che entra e da ciò che accade nel termovalorizzatore.
Cosa succede ad esempio se per qualche motivo la quantità di rifiuti viene a essere minore del previsto?
E questo, almeno in teoria, è proprio quello che dovrebbe succedere incrementando, grazie alla cultura del riciclo e alla tecnologia, la frazione destinata ad essere recuperata.
Come sarà integrata allora la quantità di combustibile mancante?
Non dimentichiamo che si tratta di combustibile a basso potere calorifico, quindi ce ne vuole parecchio per produrre la stessa quantità di energia rispetto ad altri vettori energetici più “convenzionali”.
L’alternativa principale è quella di aggiungere al mix di combustibile anche un combustibile “convenzionale”, pagando lo scotto di una combustione a efficienza decisamente bassa (proprio per la bassa qualità del mix), ma questo è possibile solo se l’architettura dell’impianto lo consente.
Poiché per le zone servite da teleriscaldamento spesso non sono concesse alternative (e quindi non c’è un sistema “di riserva” per scaldarsi qualora il termovalorizzatore non fosse in grado di erogare il servizio), il problema di garantire comunque l’apporto energetico promesso è tutt'altro che marginale.
Anche per questo mi trovo a sostenere il parere degli esperti AICARR quando dicono che sarebbe buona cosa che queste reti non fossero eccessivamente estese e servissero un numero limitato di grosse utenze, caratterizzate da omogeneità e prevedibilità nei fabbisogni.
Come possiamo conciliare da un lato l’imprescindibile necessità di gestire nel modo migliore i rifiuti, che inevitabilmente produciamo, e dall'altra parte salvaguardare sia il nostro comfort termico che la qualità dell’aria che respiriamo?
La risposta, ancora e sempre, non può che essere una: risparmio ed efficienza.
Qualcuno infatti ha affermato che “il risparmio energetico è la prima fonte rinnovabile di energia, disponibile subito”.
Risparmio, perché i rifiuti che non si producono non devono essere smaltiti, quindi avanti a tutta forza con riciclo, riuso e innovazione tecnologica volta a ridurre sprechi e imballi inutili.
Efficienza perché il potenziale energetico non va mai sprecato, ma va sempre utilizzato nel modo migliore. Se combustione deve essere, quindi potenziale danno ai polmoni di tutti, che sia almeno la combustione strettamente necessaria per garantire il comfort necessario. Garantire, quindi niente megaimpianti che se appena succede qualcosa sono completamente fuori servizio, con interi quartieri al freddo (o costretti a scaldarsi con apparecchi elettrici, con le conseguenti ricadute economiche), ma piuttosto gli impianti giusti per smaltire correttamente quello che serve, sulla base delle utenze da servire.
Anche nel campo elettrico è ormai evidente a tutti (e anche a livello UE ci sono stati dei decisi passi avanti in questo senso) come il futuro non sia nei megaimpianti, quanto in un modello più vicino possibile alla “generazione distribuita”, dove ognuno dei punti è dimensionato per il proprio fabbisogno ma può, all'occorrenza, intervenire a sostegno dell’intera rete.
Questo ribadisce il concetto che ciò che sembra efficienza (un estremo sfruttamento di ciò che altrimenti è “rifiuto”) viene facilmente smascherato da ciò che veramente è efficienza, cioè sfruttamento ottimale di una risorsa.
Non sarebbe forse meglio per tutti quindi abbinare i vantaggi di un sistema di teleriscaldamento alimentato con termovalorizzatore, dimensionato in modo corretto e per la tipologia di utenze giusta per questo tipo di produzione, ad un sistema distribuito in grado di sfruttare al meglio i vettori energetici che già ci sono (il gas ad esempio, che va comunque distribuito nelle città anche solo per gli usi di cucina), abbinando così risparmio ed efficienza?
E allora, perché non abbinare termovalorizzatori e caldaie a condensazione per le utenze che non ha senso servire con il teleriscaldamento?
E meglio, perché non sfruttare le pompe di calore, alimentate a gas esattamente come le caldaie, per realizzare la simbiosi migliore tra risparmio ed efficienza?
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